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Gran Loggia d'Italia degli ALAM

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Massoneria di Rito Scozzese Antico e Accettato

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Gran Loggia d'Italia · 8 Giugno 2020 - 11:37

La signora della vita

di Antonio Binni

Da una tomba massiccia, quasi cubica, posta al centro del quadro iniziato a dipingere da Poussin nel 1639 o nel 1640, dal titolo Les Bergers d’Arcadie, ora al Louvre di Parigi, così parla la Morte: et in Arcadia ego, “io, la Morte, sono anche in Arcadia”, a significare che la Morte regna ovunque e, perciò, anche nell’Arcadia pastorale, deserta, senza abitazioni, senza greggi, senza zampogne: quanto dire in un luogo beato e utopico, l’Arcadia appunto, che sembra sottratto al tempo. Non c’è dunque possibilità di sfuggire alla Morte perché il suo potere si estende, e nel tempo, e in ogni luogo. Il quadro rinuncia ai consueti simboli funerari. Nel dipinto non figura infatti alcuno dei segni tradizionali della morte. Non teschi, né frutta in putrefazione, né rovine, né alcuna clessidra che, con la sua strozzatura centrale, apre al regno dei morti. Che sia l’innominata a parlare non vi possono però essere dubbi, se non fosse altro che per le ulteriori (rispetto al monito) conferme desunte dalla ispezione del quadro, lenta e meticolosa come quella del pastore che tasta e interroga le pietre. La prima, e più probante, è costituita sicuramente dall’ombra che il pastore, posto in ginocchio al centro del dipinto, proietta sulle pietre, il segno di una falce, che, per definizione, disegna il simbolo della morte. Dove l’ombra è ancora più pregna di significato quando si consideri che la stessa copre quasi completamente l’ego del monito, qui considerato, invece, come l’ego dell’uomo, la sua parte più caduca. La seconda, non meno probante, è costituita dagli alberi quasi secchi posti sulla destra del quadro, a riprova che neppure la Natura può resistere al potere distruttivo della Morte. A definitiva conferma, semmai ancora occorresse, è infine la figura del pastore a sinistra del dipinto, la cui profondissima malinconia è data dal suo conoscere da sempre l’approdo finale dell’uomo. Per questo, anziché scrutare le lettere nelle quali si dipana il monito, si abbandona invece semplicemente sulla tomba parlante con un braccio molle, seppur di fermo rifiuto. Le due figure fra di loro intrecciate con il tumulo sintetizzano così una profonda meditazione sulla Morte, sulla sua inevitabilità nel tempo e nello spazio, sulla sua stessa necessità per la sopravvivenza della specie, sulla sua infine profonda moralità nell’uguaglianza del risultato: una Morte che accompagna l’uomo ogni giorno perché la Morte non viene una volta sola, anche se quella che ci rapisce è poi soltanto l’ultima, per essere vero, invece, che l’ultimo giorno è in realtà la fine del morire. La parte destra del quadro sembra, invece, completamente contraddire e capovolgere l’insegnamento racchiuso nella parte sinistra del dipinto. Poussin, con un salto solo in apparenza ardito, ci introduce infatti in un altro mondo, rappresentato da una donna abbigliata all’antico, splendidamente vestita con squillanti colori gialli e blu, che pare venuta dall’altrove per invadere l’Arcadia e ogni altro luogo dell’universo. In questa donna – che è il secondo centro della rappresentazione – si cela il mistero del quadro. Taluno ha voluto ravvisarvi la memoria, altri il destino, ma entrambe le identificazioni non convincono. Non il destino, smentito dal sorriso della figura, visto che il destino conosce pure sconfitte che certo non favoriscono il sorriso. Non la memoria dell’inevitabile evento luttuoso, come pure l’abbigliamento della donna potrebbe pur suggerire, per essere codesta prospettiva irrefutabilmente contraddetta e smentita dal presente rappresentato dalla tomba, evidenza dell’accaduto. Abbiamo parlato di capovolgimento perché nella donna noi ravvisiamo semplicemente la Signora della Vita. Gli alberi, presso il suo capo, da secchi, come ciò che è morto, sono diventati infatti completamente verdi, per la vita rinata. Ma la prospettiva sostenuta trova la sua inoppugnabile conferma soprattutto nella posa della figura. La donna, appoggiando la mano sulla spalla di un terzo pastore, che guarda direttamente il viso di chi anela il quadro, sembra infatti confortarlo e consolarlo e, con lui, confortare e consolare tutti gli uomini bisognosi di essere rassicurati a fronte della ineluttabile tragedia che li attende. La Signora, con la sua saggezza, a chi guarda il dipinto, comunica allora che la Vita continuerà sempre a risplendere nonostante la Morte. Tutto è così rovesciato. Non c’è più la Morte con la sua terribile frase ripetuta e i colori spettrali dell’ombra, ma la luce, la Vita, la gioia degli squillanti colori gialli e blu della veste femminile, che ricordano i colori della giovinezza veneziana di Poussin. Il quadro allora altro non è che la rappresentazione del contrasto tra la Morte e la Vita, fra Essere e Divenire, dove la Morte costituisce la fonte della Vita. Facendo scomparire le generazioni sazie di giorni, la Morte apre infatti alla Vita un’alba nuova. L’Arcadia, che sembrava sconfitta dalla Morte, ha così vinto la Morte, perché la Vita con il suo inarrestabile flusso è destinata, come sempre, a germogliare e a sopravvivere. Forse andiamo errati; ma ci piace credere che il pittore propenda per la Vita, come lascia intendere lo smalto più bello riservato alla parte destra del suo dipinto. Così come crede anche chi scrive queste note, nella convinzione profonda che la Vita – e non la Morte – è il destino dell’Uomo e il senso profondo del suo Essere. Con buona pace di Heidegger e dei suoi seguaci che, o prima o poi, di questa conclusione dovranno farsi una ragione.

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Pubblicato in: Officinae

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