
Poco prima del 900 a.C., Colui al quale non ci si può sottrarre [Sal 139, 7-10], “trovò casa”. Questa espressione – bisogna ammetterlo – genera immediatamente un’incommensurabile serie di anomalie e contraddizioni. Riuscire a concepire, anche solo idealmente e per un istante, che Yahweh sia stato condotto all’interno di una struttura residenziale equivale, infatti, a produrre numerosi dilemmi teologici ed escatologici: se il Signore sceglie un popolo, lo guida, lo protegge, com’è possibile che questo stesso popolo, per quanto eletto e santo [Dt 7, 6], abbia il potere di accogliere e custodire ciò che è presso tutto e presso nulla?
La tradizione salomonica
Lo stesso Salomone, nel discorso inaugurale, non può esimersi dall’interrogarsi in merito: Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita! [1 Re 8, 27]. In precedenza, il popolo di Israele adorava il Signore nel Tabernacolo, ovverosia in una struttura mobile che il redattore dell’Esodo descrive in modo circostanziato nel capitolo 26. Un popolo in cammino, liberato e, nello stesso tempo, provato, non può che essere segnato dall’escatologia del trionfo. Le parole del Signore, in tal senso, sono inequivocabili e perentorie: “Darò a te e alla tua discendenza dopo di te il paese dove sei straniero tutto il paese di Canaan in possesso perenne; sarò il vostro Dio” [Gen 17, 8].
Accade, dunque, ciò che non può non accadere: se già la creazione è narrazione come ruah, soffio o respiro, tanto che “Dio disse: – Sia la luce! ” [Gen 1, 3], allora il dire della promessa è già opera. Non possiede un nome né, di conseguenza, appartiene a una classe; è tanto inaudibile quanto irripetibile e inenarrabile, ma è. L’idea di costruire il Tempio nasce da Davide, il Signore, però, vuole che il ‘costruttore’ per eccellenza sia il figlio Salomone [Egli costruirà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno (2 Sam 7, 13)]. Pertanto, Salomone, nell’accingersi a dare avvio ai lavori di costruzione del Tempio, chiama a sé gli esperti del mestiere, radunandoli attorno a un’intrapresa storico- ecumenica: Salomone ingaggiò settantamila portatori, ottantamila scalpellini per lavorare in montagna e tremilaseicento sorveglianti [2 Cr 2, 1].
Logos e testi sacri
La complessità dell’opera sta non solo nelle fatiche e nelle risorse della realizzazione, cui Salomone provvede rivolgendosi anche a Hiram re di Tiro [2 Cr 2,7] e Curam-Abi, il cosiddetto figlio della vedova della tribù di Dan, uomo esperto nella lavorazione di metalli preziosi, di filati di porpora e intagli d’ogni genere [2 Cr 2,6], ma anche nel portare sul piano della realtà visibile e tangibile il mistero dell’alleanza. Il mistero, per natura e secondo la propria radice indoeuropea (*mu-), nasce dall’atto del mormorare e, per ciò stesso, è pressoché impronunciabile: in origine, la parola indicava un’onomatopea che si pronunciava con la bocca chiusa e tono lamentoso [CHANTRAINE P., 1968].
Il greco μύω (mýo), significa sono chiuso, serro gli occhi o chiudo la bocca. L’uso del verbo implicava già l’impossibilità del dire. Dalla lingua latina, invece, acquisiamo il termine mystērĭum, che possiamo rendere prevalentemente coi significati di rito religioso, segreto, mistero et cetera. Lungo il continuum della trasformazione semantica, che abbiamo brevemente tratteggiata, si documenta che l’indicibile si fa lógos unicamente come pratica rituale. Il mistero, dunque, non è altro che il segreto dell’aggregazione e della stessa costruzione.
L’interprete salomonico dell’epoca della costruzione primeva, tuttavia, è costretto a misurarsi con la natura duplice e controversa del rito, che consiste non già nell’immolazione del bestiame grosso e minuto, com’è rigorosamente prescritto nel Levitico [1, 1-17], o nella recitazione di inni e invocazioni [1 Re 8, 23-53], bensì nel dover creare lo spazio per l’innominabile [io sono colui che sono (Es 3, 14)] e nel disporsi ad accettare la totalità e la sua permanenza. La totalità è qualcosa innanzi al quale l’uomo ha sempre torto, quand’anche abbia ragione; la totalità può spingere l’uomo talmente lontano da una qualche morale terrena da non consentirgli più di distinguere il bene dal male. D’altronde, la stabilità del Signore, non può darsi senza condizioni.
Schelling, a tal proposito, scrive: Se ci si chiede da dove provenga il male, la risposta è questa: dalla natura ideale della creatura, in quanto essa dipende dalle verità eterne, che sono contenute nell’intelletto divino, ma non dalla volontà di Dio [SCHELLING F. W. J., 1809, Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit, trad. it. G. Strummiello, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà, Rusconi, Milano, 1996, p. 135]
Operatività, speculatività e controllo del male
Non appare affatto improprio o infelice che la fenomenologia di questa coesistenza tra uomo e Dio trovi piena attuazione nella vicenda leggendaria che riguarda il summenzionato Curam-Abi, destinato a immolarsi alla ferocia di tre traditori a tutela dei segreti del grado. Il Maestro, in ossequio al dettato salomonico, mette in opera non già i precetti d’una confessione, bensì le condizioni di esistenza dell’eternità, eternità che non è solo dedicazione, ma anche olocausto. Il concetto che intendiamo esplicitare e che appartiene già, per esempio, al sistema simbolico-allegorico del tappeto a scacchi come di alcuni gradi dello Scozzese è il seguente: di là dalla dialettica tra operatività e speculatività, che ha animato parecchi dibattiti, ciò con cui bisogna fare realmente e coraggiosamente i conti è la necessità del “controllo del male” come evento della stessa ‘costruzione’.
La vicenda biblica di Salomone ne rappresenta icasticamente la sintesi paradigmatica. Il Tempio stesso, dimora eterna e inviolabile del Signore, viene distrutto dai Babilonesi nel 586 a.C., durante l’assedio di Gerusalemme condotto dal re Nabucodonosor II. Pensare di potersi giovare unicamente della Geometria sacra e della scienza dell’armonia, come se, d’improvviso, potesse venire meno il valore iniziatico dell’incessante prova, vuol dire privare di fondamento la Tradizione libero-muratoria. In merito alla tradizione, è doveroso osservare che certi segni non nascono dalla ricca fantasia o semplicemente dall’ingegno di un re: Salomone si reca presso la più grande altura di Gàbaon [1 Re 3, 4] per meditare e ‘incontrare’ il Signore.
Dopo avere offerto mille olocausti [1 Re 3, 4], egli chiede immediatamente saggezza e sapienza [1 Re 3, 9]. Ora, se si esaminano le condizioni della successione di Salomone a Davide, si rilevano quell’asprezza politica e quella complessità antropologica che hanno sempre indotto gli storici a reputare il più giovane dei quattro figli di Betsabea quale saggio e illuminato civilizzatore. L’apertura del summenzionato libro dei Re, oltre a narrare della travagliata vecchiaia di Davide, testimonia degli intrighi e dei complotti di Adonia [1 Re 1, 5], il maggiore dei figli, il quale non esita a brigare per l’autoproclamazione, tanto da organizzare una cerimonia di successione [1 Re 1, 9], senza ottenere il consenso dal sovrano in agonia.
In questo progetto, intervengono da sostenitori sia Ioab, comandante dell’esercito, sia il sacerdote Ebiatàr. Una prima notazione d’importanza referenziale è l’assenza dell’unzione del candidato autodesignante: ciò che lega inscindibilmente il popolo di Dio a un sovrano è l’atto rituale di riconoscimento di una missione ontologica. Il segno, rimando necessario all’intera escatologia della salvazione, è, già da sé, entità. Ogni sovrano ne è marchiato. Adonia, così facendo, cioè trascurando il necessario avanzamento dell’unzione, si colloca fuori dalla storia e dalla propria filogenesi. Non a caso, egli, oltre a rifiutare il percorso rituale, esclude dalla cerimonia il profeta Natan, Benaià, il fedele capo della scorta di Davide e, soprattutto, il fratello Salomone [1 Re 1, 10].
È noto che Adonia non riesce a portare a compimento la conquista della reggenza. Natan e Betsabea si fanno mediatori presso Davide [1 Re 1, 11-27], il quale autorizza la designazione e l’unzione di Salomone. Salomone, dunque, non passa alla storia della fede come l’uomo del Tempio, ma come l’Uomo nel Tempio. Il Tempio originario è τέμενος (témenos), ovverosia dominio sacro, ma lo spazio d’elezione, la dimora del Dio dei Padri, è fondata etimologicamente sul tagliare, ferire, mutilare, recidere et similia (τέμνειν, témnein). Pertanto, prim’ancora di frequentare il Tempio, l’uomo dovrebbe tagliare sé stesso, separarsi dalla comune rappresentazione del mondo.
Francesco Mercadante


